“Gli unici paesaggi a cui si va incontro sono andamenti di abitudini, circostanze secondo le ore, luci e colori e rumori che cambiano. Tutto questo svanire da cui nascono i racconti, la nostra piccolezza dispersa vicino a un fiume.”
Gianni Celati
Che proceda per sintesi o che avanzi per accumulo, la pittura può avere la forza di coagulare in una superficie unica i diversi istanti di un discorso complesso, multiforme. Ciò che c’è sotto, appena percepibile, può però occhieggiare, fare capolino, mostrarsi, fra le sgocciolature, i graffi, le macchie, le velature e le tante voci che coprono la tela. È quanto succede nei dipinti di Stefano Trappolini.
“Le mie sagome”, dice l’artista di quelle silhouettes che avanzano, un passo dopo l’altro, segnando le tele in combinazioni sempre diverse: e in quel “mie”, sono sicuro, non c’è solo una attestazione di paternità materiale, ma la consapevolezza che un po’ di lui, del suo corpo e della sua esperienza, si trasmette in quella figura che avanza.
Avvolte da gorghi di pennellate, immerse in campi materici oppure svettanti intonse su superfici gestuali, queste sagome attraversano un mondo di segni diversi, in cui colori vivi e accesi possono lasciare il posto a dissolvenze e contrasti, oppure, come talvolta avviene, le grosse lettere tipografiche della stampa quotidiana inchiodano le figure a un’attualità ineludibile.
Sì, perché avanzando, le sagome trovano corpo, si fanno sostanza, sono testimoni di un mondo in guerra, di una realtà che è anche di plastica, si materializzano nei colori caldi o si impastano e si macchiano nelle tinte ocra della terra che è anche Terra, con la maiuscola. Ravvivati dal gioco intenso dei colori o mossi dalla grana grossa delle tele di sacco, i dipinti si mostrano all’osservatore come dei palinsesti: strati su strati in cui, dicevamo, non sempre ciò che sta sopra riesce a obliterare la materia che c’è sotto. Ed è per questo che la pittura si fa attuale, perché rifugge da qualsiasi strada facile e lineare che suonerebbe falsa, riuscendo piuttosto a trasmettere la complessità e la polifonia e i rumori del mondo, a restituire con forza “la nostra piccolezza dispersa vicino a un fiume”.
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