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Immagine del redattoreFosco Vuličević

L’emozione e la memoria come conferma dell’essere

L’approccio di Valeria Magini al disegno avviene già in tenera età, ispirata dall’attività pittorica del nonno e dello zio. I primi passi sono compiuti per gioco, disegnando insieme alla madre figure umane, spesso quelle delle protagoniste dei cartoni animati giapponesi della sua infanzia.


Nonostante i suoi studi l’abbiano portata verso le Scienze linguistiche e la letteratura inglese, la passione per l’arte l’ha sempre accompagnata, così come l’apprezzamento di artisti come Van Gogh, Monet, Cézanne e Degas ma anche dei fumetti di Hugo Pratt. L’interesse per il disegno e la letteratura in questa artista si intreccia a quello per l’illustrazione e per la fotografia, sospingendola verso un corso con Chiara Rapaccini e alla frequentazione del Laboratorio Fotografico Corsetti.



È proprio dalla fotografia, in particolare quella di Henri Cartier-Bresson con la quale ha un incontro epifanico al Museo dell’Ara Pacis di Roma nel 2014, che Magini ricava il punto focale della propria poetica. È indicativo infatti che la sua prima personale, tenuta alla Galleria Moderni di Roma nel 2022, sia intitolata Istantanee. A guardare le sue opere, esse appaiono come una collezione di momenti di vita quotidiana, attimi sospesi e colmi di tenerezza che l’artista ha voluto conservare.


Ma c’è un importante dettaglio nel lavoro di Magini che rende il titolo Istantanee quasi ironico: l’artista non dipinge mai dal vivo. A volte parte da una fotografia di uno specifico momento passato, molto più spesso attinge solo e solamente alla sua memoria.



Il rapporto con la fotografia diventa quindi asintotico: ovviamente la mano umana non può ricreare la perfezione della macchina, ma non lo vuole nemmeno. La realtà, non percepita dall’artista all’interno di un presente illusorio e impossibile da trovare in un futuro angosciante, può essere cercata solo nei ricordi sfumati dalla fallacia della natura umana, e non può essere fedelmente restituita se non in modo visivamente indefinito.


È la stessa indefinitezza dell’immagine che restituisce la sensazione del ricordo, l’unico appiglio per la conferma del reale e per la sua riorganizzazione, in quanto il passato, o meglio il ricordo di esso, è l’unica cosa certa e reale.


Questa concezione della realtà deriva in gran parte dalla metabolizzazione dell’idea di memorabile che Joël Candau espone in Memoria e identità, testo che l’artista ha incontrato nei suoi studi universitari: il tempo esiste solo in quanto possiede un contenuto, che non è archiviato passivamente ma ricreato e reinterpretato in un presente che guarda continuamente alle sue spalle per definirsi.



Quello di Magini è un gesto artistico attuato per rientrare a contatto con la realtà partendo da questa premessa, un’autoterapia contro la sensazione di sentirsi fuori posto, contro una percepita indefinitezza dell’essere e dell’individualità. Le sue opere certificano la sua presenza in un dato momento del passato e la sua identità capace di ricordare nel presente della creazione. È allo stesso tempo anche un modo per cercare di smentire una concezione della realtà e dell’umanità fondamentalmente negativa, uno sconforto che l’artista non si vuole permettere di rappresentare per paura di venirne fagocitata. Ogni quadro è il palo di una palizzata contro questa mole di tenebre, una medaglia esposta ostinatamente da un solo lato, per lasciare il resto nell’oblio.



È facile quindi comprendere perché quella di Magini risulta essere una pittura fortemente antropocentrica. Il punto di vista da cui le scene ritratte sono osservate non è quasi mai impersonale, è quasi sempre posto dietro gli occhi dell’artista. Allo stesso tempo, l’oggetto della rappresentazione è l’umanità a lei più vicina: il marito, gli amici, i suoi cari, o anche dei passanti, degli sconosciuti che hanno suscitato in lei una certa amorevole curiosità. Effettivamente nella maggior parte dei suoi quadri vi è racchiuso un piccolo momento di struggente affetto verso gli esseri umani che popolano la sua vita e i suoi ricordi.


Sembra che le sue opere registrino o meglio ricreino quei momenti dove l’artista ha provato una piccola stretta al cuore, un picco di emotività che denota ciò che per lei è memorabile. Ci sorprendiamo a condividere l’emozione che lega l’artista a quel momento, amiamo i suoi cari senza conoscerli, e insieme a lei ci ritroviamo a ripetere: “Io esisto, io ho amato e ne vale la pena, ne vale la pena, ne vale la pena, ne vale la pena”.



In Salsedine Valeria Magini porta una serie di ricordi selezionati perché ambientati tutti in prossimità del mare. La curatrice Velia Littera si deve essere accorta di come questo tema abbia un posto privilegiato all’interno della produzione di questa artista. Luogo di sospensione delle difficoltà quotidiane, la spiaggia si presta evidentemente ad indurre con più facilità quei momenti di tenera contemplazione che poi l’artista ricorda e ricrea nelle opere.


Mentre le figure umane sono spesso in primo piano e sempre il punto focale della rappresentazione invece la sabbia, le rocce, i flutti sembrano farsi rarefatti e lo spazio sembra diventare il meno possibile geometrico. L’artista cerca di fuggire quanto le è possibile all’uso della prospettiva, perché a sostenere la materia in queste scene non è una struttura impersonale e geometrica ma il ricordo di un’emozione che ricrea un’intera realtà.

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