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Anna Imponente

L’arte del “fair play” in Vittorio Pavoncello

“L’esattezza è il principio dell’esistenza, il vero volto di Dio”

Giovanna Garzoni, pittrice del secolo diciassettesimo, Matteo Ferretti 2019

 

                                                                                 

“Io dovrei essere solo al mondo, io

Steiner e nessun’altra forma di vita.

Niente sole, niente cultura, io nudo

Sopra un’alta roccia, senza tempeste,

senza neve, senza banche, senza

soldi, senza tempo e senza respiro.

Allora di sicuro non avrei più paura”

Robert Walser (1878-1956)

                                                                                  

 

Per Vittorio Pavoncello trasformare con leggerezza di ali un linguaggio artistico in un altro, transitando senza inciampi dalla regia di un suo testo nel laboratorio di teatroterapia o riscatto antropologico al femminile, alla celebrazione in pittura di una forma di spettacolo che solo il tennis può offrire, è rivelazione di sé e del mondo.

Qui si dispiega un racconto colorato in immagini guizzanti con la fascinazione dei diversi riti di iniziazione che si consumano durante una partita.


Episodi concatenati e il commento di titoli eloquenti. Come fossero strips della voce narrante, l’autore che decodifica un’esperienza da lui consumata. A animare le superfici delle tele la compenetrazione tra spazio scenico e protagonisti del gioco, semplici pittogrammi segnaletici danzanti che assorbono dall’ambiente variazioni atmosferiche. Cedendo in cambio campiture uniformi.



Opere di decoratività fiorita in senso matissiano, composizione aeree musicali di linea curve arabescate. Per abbellire la quotidianità con un sedativo mentale “qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica fisica”. Per gli avversari in arte detrattori “tele che ricevono calci in faccia colorati”. Nella replica di Matisse, disposizione del quadro in armonia espressiva.  

 L’Invito di Pavoncello è all’uso estetico del movimento del corpo posizionato in forme frammentate tese a ricomporre la perfezione.


I buoni risultati hanno bisogno di mira, scatto muscolare, attitudine interiore, autocontrollo, capacità di concentrazione, prevedibilità. “Ad essere precisi” a “cadere e far finta di niente” recitano i titoli dei dipinti. Con approccio felicemente distaccato isola il momento infinitesimale in cui la palla tocca il campo di gioco. Come nel finale di “Blow up“ film di Antonioni le strategie vengono mimate confrontandosi con l’aria.



In una condizione di fair play, “Vincerò o perderò” il tema di un quadro. Così succede nel gioco corretto, a armi pari grazie a regole avallate da un arbitro. Mentre con la serie di incisioni delle storie bibliche “Il popolo del sogno” (2004) era il giudizio divino a dirimere le azioni di presenze filiformi graffianti la carta nella bicromia del chiaroscuro.


 Al gruppo di lavoro teatrale “Women in selfie” profughe con l’orgoglio di aver superato battaglie emotive per esporsi, Pavoncello sembra ora offrire un esempio etico consolatorio. Nel gioco del tennis si vince senza uccidere laddove nell’esperienza della guerra si uccide senza vincere.


Fioccano i rimandi al cinema privilegiato nel documentare il movimento incantatore seduttivo e i rischi dello sport. “La grande estasi dell’intagliatore Steiner” (1973) è quella dello stesso Werner Herzog che si immedesima riprendendo emozionato al rallentatore il volo con gli sci e la caduta rovinosa.  Mentre in sovrimpressione compare la poesia di Walser riportata qui nell’incipit.



Il tennis metafora della lotta con un ostacolo invisibile quale la paura di perdere, esorcizzata superando i match, si connette alla sfida mossa all’avversario nello spazio ridotto del gioco a scacchi. Ingaggiato dal protagonista di “Il settimo sigillo” (1958) di Ingmar Bergman, sulla scorta dell’iconografia di un affresco medioevale, con l’ineluttabile sempre latente.


Una storia personale mi ha ricordato come la voglia da morire di vincere nel tennis possa essere sete di vita che si arrende per un calcolo imprevedibile.

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