“Al pari di ogni giovane poeta, egli era immerso in una descrizione della natura; e, spinto dal desiderio di conferire al verde l’esatta sfumatura, cercò con lo sguardo l’oggetto medesimo, il quale era per l’appunto un cespuglio d’alloro che cresceva sotto la finestra. S’intende che, dopo di ciò, non riprese a scrivere. Il verde della natura è una cosa; il verde in letteratura è un’altra cosa. Una naturale antipatia, si direbbe, regna fra la natura e le belle lettere; mettetele a confronto, e si prenderanno per i capelli. La sfumatura di verde che Orlando vide sciupava la sua rima e mandava a monte il metro”.
Per introdurre il discorso su Nino De Luca ho preso in prestito questo brano dell’Orlando di Virginia Woolf, perché in esso la scrittrice inglese pone uno dei problemi fondamentali dell’arte moderna: il rapporto tra il dire e il vedere, tra il linguaggio e il sentire. Per la Woolf, come per Nietzsche, esiste un rapporto diretto tra l’arte e la parola che la descrive, mettendo il vedere, l’esperienza dei sensi, in secondo piano. Anche per Heidegger il linguaggio della parola non si rapporta al vedere, ma direttamente alla cosa vista com’essa è nel suo esser proprio. Il linguaggio verbale, il dire, ha una sua intrinseca visibilità. La parola mostra la cosa, la fa vedere. L’arte e lo spazio sono, anzitutto, esercizio di ascolto della parola.
Nino De Luca sembra voler stare in un territorio differente.
Precipita subito nel campo delle emozioni primarie, infatti, chi si lascia attraversare da quell’onda di colore intenso che trabocca dalle sue tele. Un mare profondissimo, ma che non fa paura pur promettendo molte insidie. Un mare nel quale l’artista sembra muoversi senza angoscia, anche quando s’immerge nel proprio abisso esistenziale, che è quello di tutti, la tragicità della vicenda umana, quella macchia color arancio ripetuta in diverse tele, forse il segno di una differenza, di un’unicità.
Talché i lavori di Nino De Luca si caratterizzano per un raffinatissimo equilibrio cromatico, che intuiamo essere stato raggiunto dopo un tour de force di infinite campiture, sperimentazione di tecniche, addizioni e sottrazioni di più materie e supporti, e sempre volto a un’incessante ricerca dell’essenziale. Nino De Luca dichiara apertamente ciò che sta facendo con la sua pittura alla costante ricerca del limite, di quell’inafferrabile linea di confine tra l’acqua o la terra e il cielo. E le sue tele, così risolvendo il problema che affliggeva Orlando, trasmettono ciò anche all’osservatore che non sa leggere il significato degli elementi significanti (pochi) disseminati nella tela.
Bisogna poi essere stati al suo studio al palazzo Castelli per comprendere al meglio la poetica di Nino De Luca. Egli dipinge quello che dipinge anche perché lo fa in quel luogo e in nessun altro, un luogo che vive solo e appartiene interamente alla luce del giorno, invadendo ogni spazio nei tempi che la natura gli concede. La luce, genitrice e veicolo delle nostre più profonde emozioni.
In quale profondità nasconderò la mia anima
Perché non veda la tua assenza
che come un sole terribile, senza occaso,
brilla definitiva e spietata?
La tua assenza mi circonda
come la corda la gola
il mare chi sprofonda.
(Jorge Luis Borges)
E se l’inabissarsi, cifra specifica di alcuni lavori di De Luca, non fosse un accidentale naufragio di un corpo fisico o del nostro spirito, ma invece una decisa volontà di perdersi, di far sparire le proprie tracce e nascondersi tra i più dolci e i più indicibili dei propri pensieri, per marcare le proprie differenze e ricostruire una realtà differente, un “nuovo mondo esistenziale” nel quale abitare sperimentando?
Noi, del resto, procediamo solo per tentativi…
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