Sono ad Anzio con mia figlia. Siamo seduti al bar. Parliamo di varie cose, ad un certo punto nella nostra conversazione fa capolino la parola imbarazzo…. abbiamo inciampato su questo scoglio; uno scoglio liscio ma insidioso, non dissimile dagli scogli concreti che ancora si vedono lungo la linea del mare. Mangiamo il gelato e ci chiediamo cosa sia l’imbarazzo e da dove proceda. Mi guardo intorno. Provo un senso di estraneazione che mi fa vedere in modo inconsueto le persone che fino a quel momento passeggiavano lungo il molo o se ne stavano comodamente sedute come noi ad uno dei tanti bar. Penso ad alta voce, quasi in simultanea. Mi arriva così. “Ognuna di queste persone pensa di essere unica e speciale. Mi sembra una follia. Mi pare una follia pensare di essere unici e speciali. Ci si sente in imbarazzo perché si pensa di essere unici e speciali. Il tipo col maglioncino sulle spalle che segue a distanza moglie e figli; la ragazza che mangia il gelato; l’altra che non toglie gli occhi dal cellulare; il cameriere che aspetta il cliente all’ingresso del ristorante; l’indiano che procede tra la gente con i palloncini colorati… “Ognuno di questi sente di essere unico e speciale”, perché mi viene in mente questo aneddoto, dovendo parlare della mostra. In fondo, non ho inteso raffigurare nessuna delle persone di cui ho raccontato. C’entra perché in quell’istante, ho sentito chiaramente che ci si può fermare. E mandare al diavolo il timore, la vergogna, il senso di imbarazzo e di inadeguatezza che prendono il sopravvento quando crediamo, di fronte ai nostri pensieri, di essere unici e dunque speciali. Quando vogliamo essere irreprensibili, nostro malgrado. Ho cercato di traslare questo sentimento nella pittura. E ho pensato che la pittura è un tentativo di interruzione. Un luogo a sé. Dove quello che esce entra e quello che entra esce, al di là del giudizio, al di là di tutto. Non ho mai giocato a squash, ma mi piace pensare che funzioni così. La mano dialoga con la tela. E lo fa senza voler o dover assumere una posa. Lo fa mettendosi in ascolto di una voce che non ha pretese se non quella di voler essere libera, ed in tal senso, non irreprensibile. La pretesa è di non avere pose né pretese. La tela non pretende, nemmeno interroga, si fa soltanto vedere. La tela è un mare che si svuota e si riempie in accordo ad un movimento tranquillo e universale. In questo strano limbo, si dipinge e non è dato sapere cose ne esce finché non se ne esce.
Pittura e Regia
Giuseppe Bartolomei è regista televisivo dI TV2000 da tanti anni, ed è testimone privilegiato di storie di vita che di volta in volta vengono sviscerate a l’interno del racconto televisivo. La regia è ascolto, intuizione e ritmo. Per fare una buona regia è necessario che il regista enfatizzi con la storia cui sta assistendo e si cali, contemporaneamente, nei panni degli attori che si muovono nello studio e nei panni dei telespettatori che seguono da casa che, alla fine, in un gioco di proiezioni e suggestioni, finiscono con l’essere i medesimi. Il regista deve porsi in ascolto e farsi toccare dalle emozioni, e su questo guidare nel modo giusto flusso di senso che si va delineando.
Parlavamo di squash. In uno studio televisivo si gioca a tennis, che non è molto diverso dallo squash. In un ‘intervista non ci sono muri, ma persone che dialogano. Il regista deve cogliere il sentimento che discende dal racconto e restituirlo al telespettatore in termini di stacchi, primi piani, totali, piani di ascolto, movimenti di camera, con l’unico scopo di restituire al telespettatore l’impressione, il turbamento, la suggestione e il senso di cui egli stesso è testimone.
L’impressione è però che nel racconto televisivo ci debba essere sempre un unico verso.
Il buono viene premiato, il male viene rifiutato. Si dà un volto al bene e si dà un volto al male. Ed è ovvio che sia così.
“Penso, ad uno tra i tanti episodi, alla signora colpita da un brutto male che ce la fa a guarire e poi mette al mondo un figlio. E penso che Il buono è servito. Ma poi penso alla signora malata che ci guarda da casa e non ce la fa...e penso che questa volta i panni non coincidono. Non coincidono in me. E dunque ritorno all’imbarazzo, di cui sopra.
E penso che la necessità di segnare una interruzione e di astrarsi, aumenti di pari grado al serbatoio di volti e di parole di cui il regista si è riempito dentro”.
Nasce l’esigenza di provare a trovare uno stato neutro e atemporale che preceda il senso, e la conseguente declinazione di fatti o idee che a seconda delle circostanze abbiano il segno piuttosto che il segno meno. Ne l’interruzione vive la necessità di astrarre, per astrarre bisogno operare una interruzione. In questa alternanza di stati dialogano regia e pittura.
Bartolomei artista utilizza una tecnica di arte materica utilizzando dei colori e degli elementi naturali come il caffè, frutta decomposta, marmellate e quello che c’è. Li sparge sulla tela creando un effetto quasi infantile e astratto quindi ritorna su di essa scarabocchiando segni inizialmente senza senso, ma nella sua mente fini ad un disegno già impresso nella mente. L’occhio del regista guarda oltre, infatti il quadro è ben chiaro alla fine del percorso creativo. La prospettiva non manca mai e nemmeno la maestria dei colori, ne conviene un risultato di arte essenziale, un’arte interrotta.
Ringraziamenti:
Un ringraziamento speciale a Francesca Carillo di Art Theatre Biobistrò (Teatro Vascello) Roma, in Via Carini, 72 (Monteverde Vecchio)