E’ un fatto che ogni artista deve contemperare nelle sue opere e nella sua poetica la sperimentazione del reale e la sua aspirazione alla bellezza; tutto questo crea una armonia nell’oggetto opera in cui compiacersi, una armonia con lo stile creato e con il proprio patrimonio culturale e morale. Quindi l’opera d’arte, pur dovendo interagire con l’osservatore nasce da un impegno solipsistico, nel quale quasi sempre l’artista ripropone i motivi del suo vivere, le sue gioie, e soprattutto le sue angosce. In qualche modo produrre arte è anche un curare le proprie ferite, rassicurarsi dalle proprie paure, ricercare l’armonia tra la propria verità del vivere e la propria voglia di godimento di bellezza.
La produzione artistica di Roberta ci espone una manualità che trasforma la materia per esprimere i suoi alti rapporti ideali, ma trascina sul fondo della pulsione artistica una funzione curativa, risarcitiva di un dolore che risulta una costante onnipresente; la prima spinta creativa è quindi il suo vissuto, i suoi ricordi, che vegliano costantemente sul processo di concepimento in modo che vi sia simbiosi e sintesi tra la passione creatrice che necessita della materia trasformata ed i significati del lavoro completato che sono molteplici ed impregnati di valenze simboliche, con divinità ctonie onnipresenti sullo sfondo, anche se non visibili.
La cifra artistica e le tecniche sviluppate da Morzetti ci rinviano ad una tradizione tutta italiana dell’assemblaggio, che trova in Ettore Colla la sua espressione primigenia. Il relitto, l’oggetto trovato, viene ricollocato e gli viene data una valenza simbolica nel grido di denuncia che accompagna l’opera. Perché, sia chiaro, quel che più preme a Roberta è la denuncia, la ribellione mascherata e trasfigurata dalla bellezza dell’arte; ma pur sempre denuncia, presa d’atto, richiamo alla coscienza ed alla morale superiore. Tutto questo fa di questa giovane artista un vate, con il suo fardello di dolore e di ricordi e con il suo coraggio di mostrarli al mondo.